VI dom di Pasqua 25.05.’14
Amare significa essere veri, ma anche vulnerabili
Amore e solitudine
Ciò che rende significativo lo spazio delle nostre relazioni è proprio il desiderio di cercare e di stare con altri: alcune persone le scegliamo, altre le cerchiamo, altre ancora le raggiungiamo dopo tempo, per arrivare a quelle che rifiutiamo, quelle che non vogliamo incontrare, fino a quelle di cui non ne volgiamo sentir parlare perché ci hanno ingannato, raggirato, forsanche usato. Con le prime siamo assetati di desiderio e di ricerca, sappiamo che con alcuni stiamo veramente bene e la nostra parola diventa linfa per la quotidianità di altri, e viceversa; con le seconde invece viviamo una sorta di indifferenza e superficialità: forse non diventiamo così ostili, però ci impegniamo ad essere sereni con molta superficialità. Ecco che amare gli altri diventa veramente complesso perché l’esperienza dell’amore chiede anzitutto un capovolgimento di stile che interpella la propria persona: amare è anche essere disposti a soffrire nel senso di divenire vulnerabili poiché la nostra solitudine viene abitata da ciò che sta fuori da noi. Questa è la radice del “desiderio” (de-sidera), dalle stelle, e ciò che viene in noi diventa nuova misura in un duplice modo: o ci ferisce, o ci completa.
Amore di Cristo e amore del discepolo
Credo che il Signore Gesù chieda ai suoi discepoli di leggere l’amore in questa direzione: il suo se mi amate, osserverete i miei comandamenti non può essere letto come obbedienza ossequiosa di una Legge o, addirittura, la semplice esecuzione di uno stile di vita; Gesù chiede di amarlo come Lui stesso ama, cioè con una misura alta dell’amore, un amore senza tornaconto, gratuito, senza compromessi, liberante, senza egoismo, senza condizioni. Egli entra nella nostra vita perché in noi vi è la sua immagina seminata fin dal Battesimo, ricevuto nel nome del Signore: non chiede di trasformare la nostra vita, ma di renderla autenticamente evangelica. Egli dimora in noi e si manifesta in noi e questo significa che noi siamo depositari della presenza del suo Spirito e dunque la nostra quotidianità dovrà essere capace di dire tale presenza. Il discepolo di Gesù ama secondo lo stile di Gesù e, come scrive Pietro, perché possa rendere ragione della speranza che è in lui. Quale ragione più nobile della speranza per dire di essere discepoli di Cristo? Non serve il buonismo o la buona educazione, ma la virtù della speranza, quella che lega il quotidiano al futuro e traduce il passato in un oggi ancora possibile, vivibile. Solo la speranza consegna l’eternità al tempo.
Il Paraclito e l’amore. L’amore del Paraclito
Non consolatore, non avvocato, ma una guida posta accanto (pará, “accanto”; kletós, “chiamato”): il Risorto precisa un altro Paraclito, e dicendo così si autodefinisce Egli stesso come Maestro, Guida, Pastore posto accanto. Nessun discepolo può amare, dunque, a modo suo ma dello stesso amore di Gesù, un amore che attira a sé anche incomprensione, delusione, amarezza, tradimento. Amore fragile, vulnerabile, ma capace di donare e donarsi; capace di verità e non di vigliaccheria. Amore capace di renderci guide (paraclitoi) per altri, guide in un amore veramente innamorato.