4 gennaio 2015 – II^ dom di Natale
Gesù è il volto di Dio Padre: noi crediamo in quel Dio che Gesù ci ha narrato
In quale Dio crediamo? Un capovolgimento inedito
Ce lo siamo detti più volte e ancora lo ricordiamo vicendevolmente che è più facile dire di “credere in Dio” piuttosto che affermare di “credere in quel Dio che Gesù ci ha narrato”. Cogliamo questa abissale sottigliezza dal Prologo di Giovanni quando scrive «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato», in greco exeghésato: narrato, raccontato, svelato… Siamo nel cuore di un capovolgimento inedito e che ancora oggi fatichiamo ad assumere: tutta la religiosità umana si è concentrata da sempre sul rapporto e sulla ricerca di Dio, l’Essere Superiore, mentre col cristianesimo vi è quella novità dove è Dio ad essersi umanizzato e ad essere andato in cerca dell’umanità nell’uomo Gesù che ha aperto un sentiero unico per andare a Dio, al punto che egli stesso ha potuto dire che «nessuno può andare al Padre se non attraverso di me» (Gv 14,6). In quale Dio crediamo? E’ una domanda che interpella anzitutto il nostro credo, la nostra fede e quindi la nostra religiosità. E’ più facile credere in Dio che mettersi in ascolto delle parole, dello stile, dell’umanità di Gesù; è più facile cercare l’irraggiungibile che lasciarsi incontrare da chi è già in cammino verso di noi; è più autogiustificativo affermare che Dio non ascolta piuttosto che mettersi in ascolto della sua Parola vivente, Gesù. Gesù narra, svela, racconta che Dio è anzitutto Padre: viene da Lui, da Lui è generato fin dall’eternità, viene nel mondo come luce che dissipa il buio, viene per illuminare, «eppure il mondo non lo ha riconosciuto» ma a chi lo ha accolto «ha dato potere di diventare figli di Dio».
Noi siamo la tenda di Dio, la sua Shekinah
Dio sempre si è manifestato e fatto conoscere come presenza, cioè come un Dio di relazione, un Dio a cui rivolgersi, un Dio da cui attendere una parola venuta sempre per mezzo di profeti, re, inviati, messaggeri. L’uomo dell’Antico Testamento si è sempre preoccupato di costruire una tenda, una dimora dove far abitare questa presenza divina: la «tenda santa» – dice il libro del Siracide -, la Shekinah, dove stava riparata l’Arca dell’Alleanza, la Parola data a Mosè e scritta col dito di Dio. Così il Prologo ci rinnova questa presenza con le parole «venne ad abitare in mezzo a noi» dove “abitare” (kenoo)è il verbo dell’abbassamento divino, della sua umiltà, del suo annientarsi per stare con l’umanità. Così l’uomo, la sua umanità fatta di desideri, speranze parole, eventi, tutto diventa casa di Dio, sua dimora: e ogni casa chiede di essere accogliente, pronta ad ospitare, capace di offrire la propria umanità.
Perché ci ostiniamo a credere a modo nostro?
«Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina»: ci guardiamo attorno prendiamo atto che qualcuno crede, qualcuno no, qualcuno ha iniziato e poi ha smesso, qualcun altro ha ripreso un cammino. Credo che il problema oggi sia la mancanza di una relazione con il Signore Gesù. Proprio perché le nostre relazioni stanno sempre più disumanizzandosi, privatizzandosi, così si assopisce in noi il desiderio di una relazione profonda e aperta con Dio, fatta di ascolto, parola, silenzio e tempo. La Parola del Dio vivo ci ha resi «santi e immacolati» per stare «di fronte a lui, nella carità» al suo cospetto, come afferma Paolo. Ma in quale Dio crediamo? Quale Dio ci stiamo inventando? Quale Dio ci siamo costruiti?